martedì 15 febbraio 2011

Riccardo Dottori presenta il suo libro “L’arte e il gioco dell’esistenza”: “L’artista come il filosofo si mette continuamente in gioco e in discussione”

Riccardo Dottori, ordinario di Ermeneutica filosofica all’Università romana di ‘Tor Vergata’, ha raccolto alcuni saggi di estetica anticipati in diversi incontri e convegni in un unico volume intitolato "L’arte e il gioco dell’esistenza" (Valter Casini Editore, pp. 350, € 23,00): l’unico scritto inedito è De Chirico: classico, romantico, postmoderno? (pp. 271-321). Non si tratta di una teoria estetica ma di un’ermeneutica delle opere d’arte: “L’arte bisogna vederla almeno da due punti di vista - spiega Dottori -: quello filosofico, cioè quello che l’arte ci dice dell’esistenza umana, come l’artista s’interroga su se stesso, sul proprio mondo, sul senso della vita, della storia e dell’umanità. E poi guardare l’opera d’arte quale essa è e vedere nella pittura i colori e la composizione del quadro coi suoi effetti estetici e interrogarsi su come l’artista esprime il senso dell’esistenza e come costruisce il discorso con i mezzi espressivi. Estetica viene dal greco ‘aisthesis’, cioè passività: recepire e ascoltare l’arte”.


Perché ammirare un’opera d’arte? Che cosa trasmette?
“È la rappresentazione dell’uomo e del mondo così come potremo vedere la musica quale espressione dei sentimenti umani, basti pensare al Cinquecento, a Vivaldi e via dicendo. Ma per la pittura la rappresentazione del mondo non è semplicemente una copia dell’esterno, bensì un’interpretazione che è tanto più interessante quanto lo è la novità attraverso la quale l’autore recepisce il mondo esterno con le sue incognite e i suoi problemi”.
Filosofia, pittura, musica: una compenetrazione di generi…
“Questo era stato visto innanzitutto da Aristotele che trattando della tragedia ha precisato che è fondamentalmente intreccio ed effetto e come diceva anche Hegel, commentando Aristotele, in gioco nel teatro è l’autore stesso”.
Afferma che l’arte e il gioco hanno in comune la sovrabbondanza dell’essere: cioè?
 “Noi reagiamo di fronte al mondo esterno e ci mettiamo in gioco e a rischio: è quello che Nietzsche chiama ‘il dire di sì alla vita ad ogni costo’. L’uomo è artista, la realtà è brutta, e l’arte ci serve per non andare a fondo nella realtà. Ciò porta a domandarsi sulla praticità dell’esistenza, a trovare nel gioco dell’arte la spontaneità dell’esistenza nella sovrabbondanza dell’essere che e abbiamo permettendoci di superare questa tragicità e non restarne schiacciati”.
Si mette in gioco anche chi semplicemente guarda l’opera d’arte?
 “Sì, perché come l’artista segue un percorso naturalmente con la propria sensibilità e la forza di essere e partecipa anche lui a questo gioco”.
Quali sono i punti di contatto fra De Chirico e Nietzsche e Schopenhauer?
 “Schopenhauer e Nietzsche ci hanno insegnato il non-senso della vita e come questo possa essere trasformato in arte. Schopenhauer ha dato a De Chirico l’idea di un’arte metafisica che è sì trascendenza sul mondo così come ci appare immediatamente, ma per Schopenhauer quel momento particolare e peculiare dell’esistenza, in cui l’uomo si interroga sul proprio destino e sul proprio essere nel mondo, è ciò che Nietsche chiama ‘l’enigma’, per cui tutti i primi quadri di De Chirico si chiamano ‘L’enigma di un pomeriggio d’autunno’, ‘L’enigma dell’oracolo’, ‘L’enigma di una giornata’…”.
Bello il concetto della malinconia che è al contempo ritirarsi in sé ma anche subire il fascino del mistero…
 “De Chirico ha fatto questo in due sensi: ora si sta ricoprendo di lui la conoscenza delle geometrie non euclidee e la sperimentazione dei diversi sensi dello spazio anche non euclideo nei suoi quadri, un senso della plasticità della materia, che guarda alla metafisica delle cose dal punto di vista appunto spaziale e plastico. E questo dà l’inizio a Carrà e via dicendo…”.
E poi…?
“C’è anche un De Chirico iniziatore del post-moderno: nella malinconia scopre il non senso dell’essere, la plasticità del reale e l’inquietante interrogativo fondamentale, nonostante voglia rivolgere tale interrogativo nell’attacco alla plasticità delle cose. D’altra parte sente troppo forte la tragicità e l’enigmicità del reale e allora l’immagine si spezzetta e della plasticità non rimangono che dei frammenti: l’opera d’arte quindi diventa un raccogliere i frammenti per interrogarci sul futuro della nostra civiltà”.
Qual è l’effetto più serio dell’attuale crisi della rappresentazione?
“È lo stesso di quello della morte dell’arte come morte di Dio. È possibile ricostituire un’unità dell’immagine? È quello che vuole fare l’arte contemporanea o vuole semplicemente essere capita? Io credo che anche l’arte contemporanea voglia essere innanzitutto rappresentazione, ma è una sfida su come guardare tale rappresentazione, mettendoci in gioco quando incontriamo un’opera d’arte”.
In conclusione, un’opera filosofica è perfettamente comprensibile e leggibile come un’opera d’arte?
“È esattamente così. Molte opere contemporanee si presentano come filosofia anche se fatta tramite immagini. Pensiamo a come Picasso concepisce l’idea del problema della sua coscienza: il volto che si spezza, un occhio che guarda nell’altro…”. Giovanni Zambito (www.affaritaliani.it)



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