martedì 15 febbraio 2011

Lo scrittore William Gibson, padre del 'cyberpunk': "La fantascienza è oggi..."

30 maggio 2008 - Martedì alle ore 21 (previo ritiro coupon omaggio), dopo il rinvio dovuto al maltempo, parte la settima edizione di “Letterature. Festival Internazionale di Roma” (info: 06.0608) curata da Maria Ida Gaeta e diretta da Piero Maccarinelli. Nella Basilica di Massenzio in via dei Fori Imperiali, i primi ospiti sono gli scrittori William Ford Gibson e Joe Richard Lansdale, accompagnati dalle letture dell’attore Claudio Santamaria e dalla musica di Maurizio Martusciello. 

Massimo esponente del genere letterario “cyberpunk”, il sessantenne William Gibson tratta ricorrentemente delle nuove tecnologie e delle loro conseguenze imprevedibili e a volte funeste per la società e per il Festival legge l’inedito racconto “Il flusso del silenzio. L’insistenza dell’oblio”. 
Due dei suoi libri sono stati trasformati nei film “Johnny Mnemonic” e “Hotel New Rose”: il primo romanzo è stato “Neuromante” dell’84 mentre l’ultimo, edito da Mondadori, s’intitola “Guerreros” (384 pagg., € 17,50). “Quando nel Texas con alcuni colleghi più giovani abbiamo cominciato a scrivere era davvero divertente - dichiara Gibson; poi venimmo identificati come rappresentanti del 'cyberpunk' e capii che il divertimento era finito”.
Non le va come definizione?
“Il 'cyberpunk' è una di quelle sigle che fanno parte della vasta gamma dell’espressione, un’etichetta che si usa da vent’anni a questa parte. Prima non c’era: sono stati giornalisti e critici che l’hanno chiamata così: ma in questo modo si viene solo mercificati”.
Qualcuno associa la sua scrittura a quella di Philip K. Dick…
“Dick non mi ha mai influenzato. Di lui all’età di dodici anni ho letto 'The man in the high castle' (pubblicato in Italia con il titolo “La svastica sul sole”, ndr): ci ho intravisto un acutissimo e stridulo lamento che mi fa innervosire. Su di me hanno avuto più ascendente altri scrittori che non sono pazzi alla stessa maniera di Dick”.
Che pensa della tecnologia, argomento chiave dei suoi libri?
“Il mio atteggiamento verso le tecnologie emergenti non può che essere agnostico: quindi né ottimista né pessimista. La cosa più importante da tenere in mente è che coloro che le creano non hanno idea di come la gente le utilizzerà. Le nuove tecnologie sono moralmente neutre fino al momento in cui non escono sul mercato e si conosce a quale uso vengono adibite”.
Dato che i suoi soggetti sono fantascientifici e proiettati sul futuro, che rapporto ha con il presente: ne è stato mai scavalcato?“Se un dodicenne sveglio di oggi cominciasse a leggere 'Neuromante' smetterebbe alla ventesima pagina perché capirebbe di che si tratta: il genere fantascientifico non ha mai parlato - e mai potrà - del futuro ma del momento in cui viene scritto. Quando ho cominciato a scrivere di questo genere sapevo che una storia doveva essere pubblicata nell’anno di composizione: le vicende di '1984' in realtà narrano del 1948”.
I suoi due ultimi libri hanno una narrazione più vicina al presente…
“Sì. Dopo aver scritto da 25 anni ad oggi la mia versione immaginaria del XXI secolo posso dire di essere finalmente riuscito a investigarne l’indicibile realtà, arrivandoci con la lenta macchina del tempo propria degli uomini”.
Nel vedere i suoi libri tradotti in pellicole ha più sofferto o approvato?
“Non molti prodotti cinematografici sembrano avere un rapporto legittimo con la mia scrittura nonostante vi facciano specifico riferimento. Diciamo che ho influenzato parecchia produzione fantascientifica ma i film che mi assomigliano di più sono quelli che fra i titoli di coda non riportano il mio nome, mentre ho terribilmente sofferto davanti a quei film che lo specificavano. Il cinema che s’ispira a un libro non ha niente a che fare con la scrittura e in generale posso affermare che i film non sono mai l’espressione finale e definitiva del testo di riferimento, anche se purtroppo molti lo credono”.
Lei ha anticipato anche alcuni nuovi modelli produttivi, per fronteggiare i quali Case, il protagonista di “Neuromante”, fa uso di droghe. Le due cose sono strettamente connesse?
“Non lo so: la descrizione dell’uso di droghe faceva parte di un tentativo serio di scrivere in maniera letterariamente naturalistica e la scelta di Case non è legata al lavoro che svolgeva. Nella narrazione succede che lui rimane danneggiato da un punto di vista neurologico e l’uso di droghe sembra l’unico modo per aver accesso all’emotività che aveva dentro e al sentimento di odio di sé, facendogli capire che tipo di 'bastardo senza cuore' era diventato”.
È la prima volta che viene a Roma?“È la seconda volta: la prima risale a circa 35 anni fa. È talmente celebre come città che emette dei fantasmi che quando ci vieni davvero devi integrare con l’esperienza fattuale che stai vivendo in quel momento. Bisogna quindi unire tutti questi pezzi di cultura popolare che riguardano Roma, come pure Venezia, dentro la vera città in modo da portarsi dietro qualcosa di più completo”. Giovanni Zambito (www.affaritaliani.it)


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