mercoledì 1 gennaio 2014

INTERVISTA AD ANGELO MARENZANA, AUTORE DEL ROMANZO “LEGAMI DI SANGUE”

Alessandria, maggio 1936. Mentre l’Italia aspetta lo storico discorso con cui Mussolini proclamerà l’Impero, il commissario Augusto Bendicò, ancora scosso dalla recente morte della moglie Betti, indaga sull’omicidio della cantante Dora Laniero. Muore anche un’altra donna, Matilde Carbone, sorella di un noto banchiere. Ci sarà un legame tra i due misteriosi casi?
Grazie all’aiuto del medico legale Silvera, il commissario farà luce su queste vicende in un’epoca in cui la morte violenta disturba l’ordine e la disciplina imposti dal regime. Tanto che Bendicò, per fare emergere la verità, dovrà fare i conti con i tentativi d’insabbiamento dell’Ufficio politico investigativo. Questa è la sinossi di “Legami di sangue” un romanzo avvincente da poco pubblicato da Dario Flaccovio editore (132 pp., € 13,00) e scritto dall’alessandrino Angelo Marenzana, che abbiamo intervistato. 
La centralità di Bendicò si evince sin dall’incipit quando dalla penombra passa alla luce del mattino presto e di lui emerge presto l’aspetto umano e il dolore per la perdita di Betti: la sua nuova dimensione di vedovo è particolarmente importante per l’indagine che si appresta a fare?
“Ho cercato di rendere centrale questa caratteristica del personaggio. L’indagine aiuta il commissario Bendicò a ritrovare un senso per la propria vita, sia privata che professionale, senza per questo dimenticarsi del suo dolore per la scomparsa della moglie. In più l’evoluzione dell’indagine stessa passa attraverso il dialogo silenzioso tra i due coniugi, in un gioco di ricordi, atmosfera e complicità reciproca, e rappresenta la spina dorsale del romanzo”.

Le piacerebbe che i lettori si affezionassero al commissario tanto da richiedere altri eventuali “episodi”?
“Certo che avere l’approvazione entusiasta del lettore al mio personaggio sarebbe un vero piacere. L’obiettivo a cui mira ogni scrittore credo. Altrettanto però sarei un po’ in difficoltà perché Legami di morte è nato come romanzo per raccontare questa storia, pennellare questa atmosfera e questi personaggi, e vedere Bendicò come figura “seriale” mi costringerebbe a rivedere tutto l’impianto che ne ha visto la nascita”.

La scelta dell’ambientazione storica da che cosa è stata dettata?
“La ragione è nel mio personale interesse per quel periodo, che di solito definisco il trentennio, ovvero l’arco di tempo che abbraccia la fine della prima guerra mondiale fino al 1948. Certamente la prima metà del secolo scorso ha portato con sé forti elementi anche controversi tra loro, culture diverse, idee, tensioni e mutamenti sociali. In più hanno per me il fascino di anni a noi ancora molto vicini ma allo stesso tempo con una logica di vita tanto diversa. In mezzo all’evolvere della storia, quella con la esse maiuscola, in quegli anni vibrava tutto un corollario di storie legate all’esistenza, spesso alla sopravvivenza quotidiana, una vita forse più popolana, di strada, dove tutti si conoscevano, più collettiva di quanto non lo sia oggi. Questa condizione di semplicità, spesso ha trasformato figure altrettanto semplici, magari anonime, in personaggi veri e proprii. Persone normali che diventavano protagoniste reali di grandi cambiamenti. Magari con un che di avventuroso, di movimentato alle spalle. In Legami di morte entra in gioco la mia memoria, ovvero quella specie di contenitore di informazioni orali, quelle che non trovi in nessun libro, ma solo nelle chiacchiere ascoltate mentre mio padre e i suoi amici si incontravano, nelle storie che loro mi raccontavano, in vicende vissute da partigiani, o nelle strade del quartiere, nelle botteghe, nelle osterie o dal barbiere. A cui aggiungere gli aneddoti legati a una certa, sottile, arte di arrangiarsi che illuminava le menti in un’epoca difficile, i soprannomi, dai quali nessuno sfuggiva, le liti coniugali sui balconi delle case a ringhiera con i vicini che assistevano piacevolmente divertiti ecc… insomma: ingredienti di vita popolana, dove, per esempio, non c’era il problema delle immondizie, non si buttava via niente e il riciclaggio era una forma di sopravvivenza per molta gente”.

La storia del contadino Gagliaudo è accertata?
“Si, è il personaggio della nostra tradizione e c’è pure un monumento in centro città che ricorda la sua astuzia. Io, almeno, ci credo, fin dai tempi della scuola elementare… sempre che non mi abbiano ingannato in tutti questi anni”.

Il giudizio sulla gente e sull’indole al pettegolezzo non è così morbido. Crede davvero che in generale si è stuzzicati dalla voglia di sentirsi migliori di quello che si è realmente?
“C’è una sordida morbosità da cui siamo travolti anche oggi con l’attenzione voyeuristica che un certo pubblico (e il mondo dell’informazione pure) nutre per i fatti di cronaca nera, sempre più inquietanti e grand guignoleschi. E penso che sia un modo per riflettere la nostra parte di mostri nel prossimo, nasconderci dietro alle tendenze omicide del prossimo e crederci migliori. Ci giustifichiamo nel giudizio crudo che diamo contro i responsabili di un dramma consumato. Insomma, ci sentiamo migliori perché noi non l’abbiamo fatto, e, come dico in Legami di morte, perché l’attenzione scivola via da noi e cerca altri capri espiatori”.

Descrivere “fisicamente” lo stato del dolore è arduo: ci è riuscito benissimo a pagina 19 quando lo paragona a “brandelli aguzzi” di una lastra di ghiaccio scagliati in ogni molecola interna. Scusi l’indelicatezza: c’è un forte dolore personale alla base di questa ‘intuizione’ letteraria?
“No. Per fortuna, finora, ho vissuto una vita nella quale mi sono stati evitati grandi dolori. Ce ne sono stati, come per tutti, delusioni, lutti, ma di dimensioni accettabili. In Legami di morte ho cercato di rivivere questi momenti difficili, interpretarli, come un attore sul palcoscenico, e amplificarli, proprio per immedesimarmi così nello stato d’animo di Bendicò”.

In quale commissario della letteratura è rintracciabile (se è così) qualche carattere di Bendicò?
“Mentre costruivo il personaggio, ho cercato di visualizzare la figura di Bendicò con la foto della moglie in mano, e insieme a lui ho visualizzato il mite giornalista di Antonio Tabucchi, Pereira (Sostiene Pereira è a mio avviso uno romanzi migliori della nostra epoca) anche lui vedovo. Personaggi senz’altro molto diversi tra loro, ma che vivono un’epoca coincidente, due uomini che alla fine dei relativi romanzi trovano un punto comune: essere consapevoli di una certa verità, e con l’amarezza di chi, paradossalmente, sa che non potrà più essere ingannato”.

Estrapolandola dal contesto fascista la frase “il nostro è un paese dalle mezze verità e dalle mille certezze” potrebbe ancora oggi rispecchiare l’Italia?
“Assolutamente si… forse fa parte del nostro DNA. Gli ultimi cinquant’anni sono stati vissuti all’ombra di grandi misteri che vedevano coinvolti apparati dello stato, alta finanza, politica, istituzioni civili e religiose, giornalisti, contrabbandieri, organizzazioni criminali, terroristi rossi, neri e pure stranieri. Ma la verità, quella vera, non ha mai illuminato avvenimenti drammatici che oggi sono entrati a pieno titolo nella storia del nostro paese ma che non sempre hanno trovato il “colpevole”. Però in mezzo a queste mezze certezze, pur senza fare un passo in avanti, siamo stati capaci, collettivamente, di riempirci la bocca e le orecchie di verità indiscutibili, certe. Anzi, cortissime”. (4 luglio 2008).

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