domenica 29 dicembre 2013

IX Asian Film Festival, intervista al regista e produttore Peter Ho-Sun Chan: "fare un film è una terapia di gruppo"


La nona edizione dell'Asian Film Festival quest'anno è stata contrassegnata da due importanti novità: la prima d'ordine logistico, con lo spostamento dalla capitale a Reggio Emilia, la seconda a livello di rinnovamento e novità, con in primis la consegna del Premio alla carriera che a Palazzo Magnani è stato assegnato al cineasta Peter Ho-Sun Chan, regista e produttore di Hong Kong. Fra i suoi tanti film prodotti e/o diretti, diversi per ispirazione e genere, ricordiamo La lettera d'amore (1999), Three (2002), Perhaps Love (2005), The Warlords - La battaglia dei tre guerrieri (2007), The Eye (2008), Bodyguards & Assassins (2009). 

Signor Chan, ogni volta che un artista riceve un premio indirettamente fa un bilancio della sua carriera: lei come vede il suo percorso fino ad oggi?

Nelle valutazioni ci sono sempre due aspetti che si prendono in considerazione: il primo è quello istintivo che ti viene dalla sensazione e riguardo a ciò mi sento sempre all'inizio della mia carriera con ogni film e penso sempre di essere un debuttante. Il secondo aspetto è quello che viene dall'analisi della propria carriera ed è quindi molto più oggettivo, per il numero di anni in cui s'è fatto cinema, per il tipo e la quantità di film realizzati, per il successo che si è avuto e i due risultati non combaciano mai. Ogni film è fatto con la stessa insicurezza del primo, con la stessa paura che possa essere l'ultimo e quindi il fatto di avere così successo come regista mi fa sentire ancora vivo e attivo, ogni film è esattamente come il primo... Parlando dal punto di vista analitico e oggettivo penso di essere a metà della mia carriera, al centro di quella che potrebbe essere la mia evoluzione.

Che rapporto personale intrattiene con la sua opera una volta terminate le riprese: la segue passo dopo passo o l'affida al giudizio e al gusto di critici e pubblico?

Cerco sempre il riscontro del pubblico per me molto utile per capire che cosa potrò migliorare dopo, quali sono gli aspetti che potrebbero essere curati o comunicati più correttamente, però non sono quel genere di regista che dopo la prima proiezione va a rivedere una parte del suo film o fa dei tagli, non è possibile, perché oramai quel che è fatto è fatto. Il riscontro del pubblico è utile per le impressioni successive. Quando vedo uno dei miei film finiti, cerco di guardarlo come uno spettatore qualsiasi che non conosce la storia, non lo vedo con un mio punto di vista personale proprio per cercare di capire che cosa il film riesce a comunicare di quello che avrebbe voluto, delle emozioni che avrebbe voluto trasmettere: cerco alla fine di comunicare al meglio il contenuto della storia.

Lei ha spaziato in diversi generi cinematografici: quale filo rosso spera che il pubblico dell'Asian Film Festival nella retrospettiva a lei dedicata possa cogliere nelle diverse pellicole?

Il tema principale dei miei film sono le insicurezze, però a mano a mano che cresco come persona e come regista, cerco di mostrare l'aspetto da punti di vista diversi tentando di dare una visione sul conflitto che nasce tra la felicità per sé e la felicità che coinvolge anche gli altri relativamente a molteplici aspetti, come l'amore per il proprio paese, per le amicizie, per le relazioni interpersonali. Fare un film è una sorta di terapia di gruppo: si parte dalla cooperazione e interazione con altri soggetti che hanno lo stesso tipo di quotidianità e di problemi...

Con il suo ultimo film 'Wu Xia' cerca di preservare il genere cinematografico sulle arti marziali: sotto quale aspetto specifico?

Questo film è molto particolare nella storia della mia cinematografia perché gli altri film guardavano alle insicurezze e ai problemi quotidiani che le persone devono affrontare indipendentemente dal fatto che vivano in campagna piuttosto che in città, mentre Wu Xia ha delle precise particolarità. Non nasce da una domanda che mi sono posto ma da un mio personale rammarico sul fatto che non ci sono film di questo genere, dalla mancanza di film sulle arti marziali che hanno accompagnato la mia infanzia negli anni '60-70. Volevo in parte tornare alle origini perché negli ultimi 30-35 anni il genere di film sulle arti marziali ha subito innovazioni e cambiamenti molto forti, diventando una sorta di film su supereroi, con voli e capovolte ed effetti speciali che non mostrano la base e la tradizione vera delle arti marziali. Ho cercato una nuova prospettiva, perché nonostante volessi tornare alle origini delle arti marziali in sé, non volevo tornare al cinema di trent'anni fa, quindi mostrare un film attuale anche perché il pubblico ha già visto tutto quel genere di film ed è un pubblico un po' snob che ha bisogno anche di innovazione più che altro nel mostrare il film tenendo una trama e una visione delle arti marziali molto più tradizionale.

Come si è mosso dunque nella realizzazione del film?

Una sera facendo zapping, ho visto su Discovery Channel un programma di medicina che mostrava gli effetti di un proiettile dentro il corpo, il genere di danni che provocava agli organi e ai tessuti prima di causare la morte, effetti che normalmente non vengono mostrati. Ho cercato di riproporre questo genere di metafora e di interazione tra la pallottola e il corpo nell'ambito però delle arti marziali. Il film allora inizia con una scena che mostra prima della morte come certi colpi possono influire sul nostro corpo a livello di organi e di tessuti, prima di arrivare al decesso, prendendo spunto dalla tradizione cinese dell'agopuntura che va a toccare i centri nevralgici del nostro corpo. È la prima volta che faccio un film così differente e innovativo, perché prima della storia viene un concetto espresso attraverso delle immagini: la storia è successiva all'effetto visivo ed è la prima volta per me.

Lei realizza tanti film: le è ancora possibile nella piccola quotidianità separare la sua vita dall'ispirazione artistica oppure costituiscono oramai un tutt'uno?

È effettivamente molto difficile separare quello che succede nella vita quotidiana dalla mia ispirazione perché anche i film che hanno un'ambientazione epica, in epoche passate, erano degli strumenti ispirati a quello che succedeva nella vita quotidiana. Il fatto che un film sia ambientato nei secoli precedenti non significa che non abbia un richiamo nella realtà, anzi per me è una metafora per mostrare che cosa crede relativamente alla vita quotidiana: c'è sempre una connessione fra i temi dei miei film, anche se può non sembrare perché utilizzo ambientazioni diverse, personaggi diversi, storie diverse, e quello che succede nella quotidianità. Fra i miei film epici e i film dei social network non vedo differenze: trattano infatti dei problemi quotidiani delle insicurezze e del modo di gestire le comunicazioni, e le difficoltà che incontro, le sensazioni che provo nelle relazioni, nell'amicizia, sul lavoro o in famiglia, sono comunque sempre riportate all'interno dei miei film.

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