venerdì 20 febbraio 2015

I cani di via Lincoln, un romanzo criminale di Antonio Pagliaro. L'intervista: ogni romanzo deve essere migliore del precedente

“Mafia siciliana e cinese in un giallo ricco di colpi di scena con protagonista Palermo e i suoi personaggi, da Lo Coco a Cascioferro, dalla Rubicone a Saro Trionfante o Leone Davì a Bobby Internescional: è I cani di via Lincoln, secondo romanzo di Antonio Pagliaro edito da Laurana (pagg. 280, € 16,50). Il noir realistico è comincia nella primavera inoltrata del 2007 e in un ristorante cinese viene sterminata un’intera famiglia di “gialli”: otto persone ammazzate a colpi di kalashnikov e una donna in fin di vita. Sei dei morti sono cinesi. Uno è un giornalista italiano. L’ultimo ha viso e mani spappolati e nessuno sa riconoscerlo. La superstite è in coma. Il libro partecipa alla seconda edizione del Premio letterario “Torre dell’Orologio” di Siculiana. Fattitaliani ha intervistato Antonio Pagliaro

L’incipit così forte l’aveva pensato subito? 
No, non l’avevo pensato subito, ma sono tante le cose che non si pensano subito quando si scrive un romanzo. Direi la maggior parte di quanto poi viene pubblicato. 
Quanto è funzionale al romanzo? 
La scena è “funzionale al romanzo” in quanto, anche se in flashforward, introduce personaggi importanti e, credo, emozioni. Se intende che la scena sta in qualche modo fuori dal plot, allora non posso che dire: sì, è vero, ma ciò non cambia la sua funzionalità. 
Sono suoi i dubbi che hanno Cascioferro e Rubicone sulla giustizia?
I personaggi sono appunto personaggi, i dubbi dei personaggi sono dunque dubbi dei personaggi. Ritengo dovere dell’autore sparire quanto più possibile. Se quei dubbi sono anche miei dubbi è pertanto irrilevante e soprattutto non deve evincersi dal testo. 
A quale codice comportamentale mafioso corrisponde la “buona educazione”? 
Non vorrei creare didascalie per la lettura del romanzo. Mi sembra che il lettore possa intuire da sé cosa vuol dire “educazione” per i personaggi del romanzo, siano essi mafiosi o no. 
Cita lo storico quotidiano “L’Ora”: che ricordo ne ha? 
Un pallido ricordo, per motivi anagrafici. Però non mi piaceva usare giornali attualmente in edicola. “L’Ora” è rimasto un nome che evoca battaglie civili, antimafia e resistenza, ed è ciò che mi serviva.
La strage del romanzo avviene il 23 maggio: qualche riferimento – anche involontario – a quella di Capaci? 
Ancora una volta, niente didascalie. Eventuali riferimenti sono lasciati alla sensibilità del lettore.
Saro Trionfante aderisce ad “Addiopizzo” è vero e puro sarcasmo: non ci si può fidare neanche di queste associazioni? 
Non è sarcasmo. Personalmente mi fido dei ragazzi di Addiopizzo, mi sembra gente in gamba. Però non mi stupirei se un Saro Trionfante esistesse davvero: non è certo una novità la mafia che fa l’antimafia. C’è un eccellente capitolo del libro “I complici” di Lirio Abbate e Peter Gomez che ne parla. È molto istruttivo. 
A quale dei personaggi “positivi” si sente più vicino? e a quale fra quelli “negativi” guarda con più clemenza? 
A nessuno: per me tutti i personaggi sono uguali, e credo che così debba essere per scrivere un buon romanzo. 
Le canzoni citate nel libro sono la sua personale colonna sonora? 
No, alcune mi piacciono, altre non mi piacciono per nulla. Sono la colonna sonora dei personaggi.
Come scrittore in che si vede diverso e più maturo rispetto al primo romanzo “Il sangue degli altri”? 
In molte cose. Nella lingua, nella gestione della trama, nella capacità di inventare buoni personaggi, nell’asciugare il testo il più possibile (cosa che ritengo fondamentale). Ogni romanzo deve essere migliore del precedente, credo sia un dovere”. (intervista dell'8 settembre 2011).

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