domenica 30 dicembre 2012

Alfonso Berardinelli, critico letterario e saggista: "Scrivere un romanzo ormai è più controproducente che segno di promozione culturale". L'intervista

Per Alfonso Berardinelli, collaboratore del «Corriere della Sera», «il Sole 24 Ore» e «Il Foglio», non è necessario scrivere romanzi perché oggi nessuno sa come scriverli: non è la prima volta che il critico letterario innesca una discussione, l'aveva già fatto sui metodi della critica, sul ruolo degli intellettuali, sul linguaggio filosofico, sull'insegnamento letterario. Nel volume pubblicato da Marsilio "Non incoraggiate il romanzo" (pagg. 288, € 21,00), attraverso la raccolta dei suoi articoli e delle sue recensioni (tre saggi di carattere generale - Il personaggio nella narrativa del Novecento, Forma e identità del racconto italiano, Non incoraggiate il romanzo - e una panoramica sugli autori italiani, da Gadda, Tomasi di Lampedusa, Landolfi fino ad Albinati, Busi, Calasso, Cordelli, Tabucchi, Simona Vinci) afferma molto chiaramente che quasi nessuno al giorno d'oggi sa scrivere un romanzo, divenuto oramai più un genere editoriale che letterario.
L'intervista.

Lei asserisce che oggi il romanzo appartiene più a un genere editoriale piuttosto che a un genere letterario e che i critici e i teorici della letteratura sono ammutoliti rispetto alla realtà del romanzo... lo sono più per la troppa quantità dei romanzi o per la poca qualità degli stessi?
Sono ammutoliti probabilmente per tutte e due le cose: primo perché esiste un limite alla possibilità perfino di un critico, di un cosiddetto addetto ai lavori di leggere una produzione narrativa assolutamente esorbitante, quindi è anche probabile che anche i più appassionati ed efficienti lettori di romanzi non ce la facciano. Poi esiste un problema di qualità, nel senso che non è facile trovare dei romanzi che per prima cosa funzionino e questo è gia un primo livello, che funzionino narrativamente, che siano dei veri romanzi e tutto sommato anche se le avanguardie novecentesche hanno denigrato la forma canonica del romanzo, tuttavia è indubitabile che il lettore comune e anche il lettore colto se apre un romanzo si aspetta di leggere un romanzo e non di leggere una serie di belle pagine. Per cui secondo me lo scoraggiamento viene simultaneamente sia dalla quantità che dalla qualità.
Nel suo libro afferma che per fare letterature bisogna nutrirsi di ossessioni: oggi negli autori quali sono le ossessioni più ricorrenti?
Mi pare che siano ossessioni di tipo fisico e tendenzialmente autistico con una forte componente - per usare un termine tradizionale della psicalanisi - "sadomasochistica" e anche un po' a volte perfino coprofile, cioè tutto ciò che è repellente, che ha a che fare con le deviazioni fisiche, tutto ciò che è sgradevole, che sembra essere più impressionante e più reale di ciò che invece appartiene ad altre sfere leggermente più sublimate. Quindi, esiste un'ossessione di questo genere: d'altra parte c'è anche una controtendenza, che è una tendenza all'impegno conoscitivo che riguarda il territorio, la realtà sociale italiana, le trasformazioni nel lavoro, nel modo di vivere, le trasformazioni dello spazio urbano, e anche dello spazio extraurbano ... dal punto di vista delle intenzioni non sono negativo nè pessimista. Mi sembra che la sperimentazione sia interessante, cioè molti narratori italiani stanno cercando la formula, il modo di raccontare il presente in Italia. I risultati sono direi un po' inferiori ai propositi.
In riferimento alla realtà e alla sperimentazione e al romanzo "La pazienza del ragno" in cui Andrea Camilleri come narratore onnisciente usa il dialetto come fosse un personaggio... Avevo già il sospetto di un'eccessiva produzione da parte dello scrittore empedoclino e per esempio un libro come "Le pecore e il pastore" lo trovo abbastanza inutile: tra sperimentazione e racconto della realtà, l'uso del dialetto quanto è pertinente?
Io credo che oggi l'uso del dialetto in Italia non sia un problema così rilevante come poteva ancora essere negli anni Cinquanta, non dico a livello di Gadda ma anche a livello di Pasolini. In effetti, oggi non si parla dialetto se non raramente e se non le generazioni più anziani, quindi l'esibizione dialettale di Camilleri mi è parso un espediente abbastanza fastidioso, quasi esibizionistico e spesso immotivato. La mimesi dei fenomeni reali, il tentativo di riprodurre la realtà com'è, di non raccontarla con una lingua artificialmente unitaria, cioè un italiano troppo standard, nei più giovani si rivolge piuttosto all'uso di una specie di gergalità giovanilistica mescolata piuttosto con l'anglofilia e l'americanofilia che con il dialetto. D'altra parte, il successo di Camilleri è innegabile: è un successo italiano, internazionale ed è legato soprattutto al fatto che la Sicilia tutto sommato sia in Italia ma soprattutto all'estero continua ad avere fama di essere una delle regioni italiane più produttive di letteratura interessante. I libri di Camilleri a me non piacciono molto e mi pare che lui sia appunto un iperproduttore ormai un po' standardizzato che anche quando usa il dialetto come sigla dell'autenticità in realtà falsifichi la realtà piuttosto che riprodurla più autenticamente.
Alcuni generi di libri vengono rivestiti da romanzo per vendere e noto che tanti giornalisti scrivono romanzi. Scrivere un romanzo che status dà?
Uno status credo ormai illusorio: io se dovessi fare una diagnosi sociologica, di sociologia culturale, direi che aver scritto un romanzo ormai è più controproducente che segno di promozione culturale. Molto spesso nelle biobibliografie si legge "ha scritto..." e segue l'elenco di una decina di romanzi di cui nessuno è al corrente, che nessuno ha letto, per cui naturalmente è quasi un'autodenuncia di insuccesso il fatto di dire di aver scritto dieci romanzi, per cui se lo scopo è quello della promozione culturale, secondo me il romanzo non serve.
La critica letteraria in tutto questo che funzione assolve?
La critica sembra distante dall'attività narrativa e "creativa", ma è anche molto simile ad essa, nel senso che nella disperazione o incapacità di inventare di persona nuovi personaggi, il critico trova interessanti i personaggi di coloro che scrivono e vuole capire che tipo di razza sono. I personaggi del critico narrativo sono gli altri scrittori: questo concetto mi è stato fatto capire dalle lezioni di Alba Donati per la quale il critico è uno scrittore generoso perché s'interessa soprattutto degli altri scrittori. Di solito è considerato antipatico e giudicante, ma è anche umile e curioso di come la letteratura possa nascere dalle teste di personaggi contemporanei che a volte conosce personalmente. Nella composizione chimica della letteratura la molecola critica non è meno importante della molecola creativa.
Molto bella la lettera indirizzata a Tiziano Scarpa: a parte l'esempio specifico, il fatto di essere tante cose giornalista, scrittore... è sintomo di una completezza, di un eclettismo che si deve possedere oppure di una ricerca insoddisfatta continua?
Credo che in alcuni sia tutte e due le cose: perché esistono molti scrittori, come può succedere - la letteratura è un affare serio - per i quali non è facile mettere a fuoco il proprio tema, non è facile mettere a fuoco il tema su cui scrivere il libro importante e quindi anche per impazienza e per desiderio di essere comunque presenti si praticano diversi livelli, si vuole comunque non uscire dalla memoria del pubblico perché si sa che se si è assenti dalle pagine dei giornali e se non si pubblica almeno un libro l'anno si viene dimenticati. Questo crea naturalmente delle patologie sia fisiche sia psicologiche che - ancora più gravi - letterarie.
Lei sottolinea quanto sia importante la costruzione di un personaggio per un romanzo: qual è il suo personaggio letterario preferito?
I due miei personaggi preferiti sono Amleto, personaggio teatrale quindi non romanzesco, ma che ovviamente è all'origine di molti personaggi poi che sono suoi successori; il personaggio proprio romanzesco per il quale ho una predilezione personale assoluta è il principe Andrej Bolkonskij di "Guerra e pace" perché è un uomo insieme ambizioso e annoiato, e soprattutto le sue ambizioni tutte immancabilmente falliscono.
Scuole di scrittura creativa: le incentiverebbe o le chiuderebbe?
Dovendo scegliere in questa drastica alternativa io le chiuderei.
Guardando al futuro della scrittura, è ottimista o pessimista?
Sono ottimista, perché frequento e incontro persone giovani che non hanno nessuna difficoltà a dialogare con me e a condividere le stesse opinioni: c'è quindi una possibilità di continuità culturale fra le generazioni, ci sono ricorrenze e costanti molto interessanti.
Allora "Non incoraggiate il romanzo" non è un titolo troppo categorico?
Il titolo non va letto a voce alta e con il punto esclamativo, ma a bassa voce come a dire "non esagerate a incoraggiare troppo quei romanzieri che sanno appena scrivere e che pensano che il romanzo sia una buona merce": io sono contro l'incoraggiamento del romanzo in quanto merce culturale.
Io leggo molto spesso tante pagine de "I promessi sposi": faccio bene o faccio male?
Pagine singole... forse va bene, sull'intero romanzo ho dei dubbi.
© Riproduzione riservata
ALFONSO BERARDINELLI
Fra i suoi libri: La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna (1994), L'eroe che pensa. Disavventure dell'impegno (1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (2001), Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati (con H.M. Enzensberger, 2006), Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (2007), Che intellettuale sei? (2011). Ha fondato e diretto con Piergiorgio Bellocchio la rivista «Diario» (edizione fotografica integrale Quodlibet 2010). Con Marsilio ha pubblicato La forma del saggio (2002), per il quale ha ricevuto il Premio Viareggio.



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