Alessandria,
maggio 1936. Mentre l’Italia aspetta lo storico discorso con cui
Mussolini proclamerà l’Impero, il commissario Augusto Bendicò,
ancora scosso dalla recente morte della moglie Betti, indaga
sull’omicidio della cantante Dora Laniero. Muore anche un’altra
donna, Matilde Carbone, sorella di un noto banchiere. Ci sarà un
legame tra i due misteriosi casi?
Grazie all’aiuto del medico
legale Silvera, il commissario farà luce su queste vicende in
un’epoca in cui la morte violenta disturba l’ordine e la
disciplina imposti dal regime. Tanto che Bendicò, per fare emergere
la verità, dovrà fare i conti con i tentativi d’insabbiamento
dell’Ufficio politico investigativo. Questa è la sinossi di
“Legami di sangue” un romanzo avvincente da poco pubblicato da
Dario Flaccovio editore (132 pp., € 13,00) e scritto
dall’alessandrino Angelo Marenzana, che abbiamo intervistato.
La
centralità di Bendicò si evince sin dall’incipit quando dalla
penombra passa alla luce del mattino presto e di lui emerge presto
l’aspetto umano e il dolore per la perdita di Betti: la sua nuova
dimensione di vedovo è particolarmente importante per l’indagine
che si appresta a fare?
“Ho cercato di rendere centrale questa caratteristica del
personaggio. L’indagine aiuta il commissario Bendicò a ritrovare
un senso per la propria vita, sia privata che professionale, senza
per questo dimenticarsi del suo dolore per la scomparsa della moglie.
In più l’evoluzione dell’indagine stessa passa attraverso il
dialogo silenzioso tra i due coniugi, in un gioco di ricordi,
atmosfera e complicità reciproca, e rappresenta la spina dorsale del
romanzo”.
Le piacerebbe che i lettori si affezionassero al commissario tanto
da richiedere altri eventuali “episodi”?
“Certo che avere l’approvazione entusiasta del lettore al mio
personaggio sarebbe un vero piacere. L’obiettivo a cui mira ogni
scrittore credo. Altrettanto però sarei un po’ in difficoltà
perché Legami di morte è nato come romanzo per raccontare questa
storia, pennellare questa atmosfera e questi personaggi, e vedere
Bendicò come figura “seriale” mi costringerebbe a rivedere tutto
l’impianto che ne ha visto la nascita”.
La scelta dell’ambientazione storica da che cosa è stata
dettata?
“La ragione è nel mio personale interesse per quel periodo, che di
solito definisco il trentennio, ovvero l’arco di tempo che
abbraccia la fine della prima guerra mondiale fino al 1948.
Certamente la prima metà del secolo scorso ha portato con sé forti
elementi anche controversi tra loro, culture diverse, idee, tensioni
e mutamenti sociali. In più hanno per me il fascino di anni a noi
ancora molto vicini ma allo stesso tempo con una logica di vita tanto
diversa. In mezzo all’evolvere della storia, quella con la esse
maiuscola, in quegli anni vibrava tutto un corollario di storie
legate all’esistenza, spesso alla sopravvivenza quotidiana, una
vita forse più popolana, di strada, dove tutti si conoscevano, più
collettiva di quanto non lo sia oggi. Questa condizione di
semplicità, spesso ha trasformato figure altrettanto semplici,
magari anonime, in personaggi veri e proprii. Persone normali che
diventavano protagoniste reali di grandi cambiamenti. Magari con un
che di avventuroso, di movimentato alle spalle. In Legami di morte
entra in gioco la mia memoria, ovvero quella specie di contenitore di
informazioni orali, quelle che non trovi in nessun libro, ma solo
nelle chiacchiere ascoltate mentre mio padre e i suoi amici si
incontravano, nelle storie che loro mi raccontavano, in vicende
vissute da partigiani, o nelle strade del quartiere, nelle botteghe,
nelle osterie o dal barbiere. A cui aggiungere gli aneddoti legati a
una certa, sottile, arte di arrangiarsi che illuminava le menti in
un’epoca difficile, i soprannomi, dai quali nessuno sfuggiva, le
liti coniugali sui balconi delle case a ringhiera con i vicini che
assistevano piacevolmente divertiti ecc… insomma: ingredienti di
vita popolana, dove, per esempio, non c’era il problema delle
immondizie, non si buttava via niente e il riciclaggio era una forma
di sopravvivenza per molta gente”.
La storia del contadino Gagliaudo è accertata?
“Si, è il personaggio della nostra tradizione e c’è pure un
monumento in centro città che ricorda la sua astuzia. Io, almeno, ci
credo, fin dai tempi della scuola elementare… sempre che non mi
abbiano ingannato in tutti questi anni”.
Il giudizio sulla gente e sull’indole al pettegolezzo non è
così morbido. Crede davvero che in generale si è stuzzicati dalla
voglia di sentirsi migliori di quello che si è realmente?
“C’è una sordida morbosità da cui siamo travolti anche oggi con
l’attenzione voyeuristica che un certo pubblico (e il mondo
dell’informazione pure) nutre per i fatti di cronaca nera, sempre
più inquietanti e grand guignoleschi. E penso che sia un modo per
riflettere la nostra parte di mostri nel prossimo, nasconderci dietro
alle tendenze omicide del prossimo e crederci migliori. Ci
giustifichiamo nel giudizio crudo che diamo contro i responsabili di
un dramma consumato. Insomma, ci sentiamo migliori perché noi non
l’abbiamo fatto, e, come dico in Legami di morte, perché
l’attenzione scivola via da noi e cerca altri capri espiatori”.
Descrivere “fisicamente” lo stato del dolore è arduo: ci è
riuscito benissimo a pagina 19 quando lo paragona a “brandelli
aguzzi” di una lastra di ghiaccio scagliati in ogni molecola
interna. Scusi l’indelicatezza: c’è un forte dolore personale
alla base di questa ‘intuizione’ letteraria?
“No. Per fortuna, finora, ho vissuto una vita nella quale mi sono
stati evitati grandi dolori. Ce ne sono stati, come per tutti,
delusioni, lutti, ma di dimensioni accettabili. In Legami di morte ho
cercato di rivivere questi momenti difficili, interpretarli, come un
attore sul palcoscenico, e amplificarli, proprio per immedesimarmi
così nello stato d’animo di Bendicò”.
In quale commissario della letteratura è rintracciabile (se è
così) qualche carattere di Bendicò?
“Mentre costruivo il personaggio, ho cercato di visualizzare la
figura di Bendicò con la foto della moglie in mano, e insieme a lui
ho visualizzato il mite giornalista di Antonio Tabucchi, Pereira
(Sostiene Pereira è a mio avviso uno romanzi migliori della
nostra epoca) anche lui vedovo. Personaggi senz’altro molto
diversi tra loro, ma che vivono un’epoca coincidente, due uomini
che alla fine dei relativi romanzi trovano un punto comune: essere
consapevoli di una certa verità, e con l’amarezza di chi,
paradossalmente, sa che non potrà più essere ingannato”.
Estrapolandola dal contesto fascista la frase “il nostro è un
paese dalle mezze verità e dalle mille certezze” potrebbe ancora
oggi rispecchiare l’Italia?
“Assolutamente si… forse fa parte del nostro DNA. Gli ultimi
cinquant’anni sono stati vissuti all’ombra di grandi misteri che
vedevano coinvolti apparati dello stato, alta finanza, politica,
istituzioni civili e religiose, giornalisti, contrabbandieri,
organizzazioni criminali, terroristi rossi, neri e pure stranieri. Ma
la verità, quella vera, non ha mai illuminato avvenimenti drammatici
che oggi sono entrati a pieno titolo nella storia del nostro paese ma
che non sempre hanno trovato il “colpevole”. Però in mezzo a
queste mezze certezze, pur senza fare un passo in avanti, siamo stati
capaci, collettivamente, di riempirci la bocca e le orecchie di
verità indiscutibili, certe. Anzi, cortissime”. (4 luglio 2008).
Nessun commento:
Posta un commento